Linguisti
Domande pervenute dal gruppo dei Linguisti
Referenti:
- Anna Cardinaletti (Università Ca' Foscari, Venezia)
- Sabina Fontana (Università di Catania, Ragusa)
Con i contributi di (in ordine alfabetico): Adriana Belletti, Giuliano Bernini, Chiara Branchini, Carmela Bertone, Olga Capirci, Carlo Cecchetto, Pietro Celo, Cristiano Chesi, Isabella Chiari, Emanuela Cresti, Alessio Di Renzo, Francesca Dovetto, Carlo Geraci, Beatrice Giustolisi, Mirko Grimaldi, Gabriele Iannaccaro, Lara Mantovan, Giovanna Marotta, Massimo Moneglia, Alessandro Panuzi, Mirko Pasquotto, Antonio Perri, Paola Pietrandrea, Maria Roccaforte, Miriam Voghera, Francesca Volpato, Roberto Zamparelli.
Acquisizione della LIS e dell’ italiano da parte dei bambini con sordità
Premesso che, sulla base delle conoscenze di cui disponiamo:
- la lingua dei segni è l’unica lingua naturale che un bambino sordo può imparare in maniera spontanea fin dalla nascita (tramite il senso integro della vista),
- il bilinguismo, sia monomodale che bimodale, offre vantaggi cognitivi,
- l’acquisizione della lingua dei segni non è incompatibile con un impianto cocleare,
constatato che:
- la maggior parte dei bambini sordi nasce in famiglie di udenti,
ci si chiede:
- quanto input nella lingua dei segni oltre che in italiano è sufficiente a garantire ai bambini con sordità il reale diritto all'acquisizione linguistica paragonabile a quella dei coetanei udenti esposti ad una lingua vocale fin dalla nascita?
- come organizzare percorsi educativi che consentano l’accesso alle due lingue?
- quali strumenti linguistici utilizzare per monitorare tale sviluppo linguistico nel tempo, fino all’adolescenza?
È un dato acquisito che il periodo prenatale non è irrilevante per lo sviluppo del linguaggio, almeno nel senso che il feto risulta sensibile alla distinzione tra alcune proprietà di suoni linguistici (quali ritmo e prosodia) e suoni non linguistici (anche acusticamente simili). La capacità uditiva è operativa tra la 24esima e la 28esima settimana di gestazione. Questo suggerisce dunque che l’esperienza prenatale giochi un ruolo nella successiva esperienza linguistica, come mostrato anche dalle capacità linguistiche già ampiamente presenti nel neonato, rivelate tra l’altro dalla precocissima capacità a discriminare lingue diverse (cfr. il lavoro pionieristico di Mehler & Dupoux negli anni ’90; più recentemente, Gervain e collaboratori; Dehaene-Lambertz e collaboratori, tra gli altri). Dato questo background di conoscenze sempre più ricche ed articolate, una domanda sorge rispetto alla popolazione non-udente:
- Quanto la mancanza dell’esperienza linguistica prenatale attraverso il canale uditivo può costituire un handicap nell’acquisizione di una lingua segnata?
- Ad esempio, la lingua segnata risulta spontaneamente acquisita con (un po’ di) ritardo rispetto alla lingua orale da parte del bambino (date capacità articolatorie adeguate, e fatte salve condizioni esterne di acquisizione comparabili)?
- Che impatto ha sullo sviluppo delle lingue dei segni - della LIS - la possibilità di correggere il deficit uditivo tramite un impianto cocleare fin da bambino?
- La disponibilità di uno strumento tecnologico così efficace potrà condizionare le dimensioni di gestione linguistica (language management, cfr. Bernard Spolsky) delle lingue dei segni e/o incidere sulla loro struttura nel rapporto bimodale con le lingue verbali?
E' chiaro che uno degli ostacoli più rilevanti in Italia rispetto all'acquisizione linguistica (della lingua dei segni che diventi ponte per una solida acquisizione della lingua vocale secondo quanto ormai ampiamente dimostrato in letteratura) delle persone sorde è la mancanza di un intervento tempestivo volto ad un'esposizione segnica precoce. In particolare, il punto debole della catena sembra risiedere in ambito medico (audiologi e logopedisti), il primo contatto per le famiglie udenti di un bambino sordo (circa il 90/95% dei casi).
- Quali strategie è doveroso e possibile mettere in atto per superare questa fragilità e raggiungere le famiglie per informarle rispetto alle conoscenze linguistiche di cui disponiamo e garantire ai bambini sordi il reale diritto all'acquisizione linguistica paragonabile a quella dei coetanei udenti esposti ad una lingua vocale fin dalla nascita?”
- In una famiglia di udenti, dal momento in cui nasce un bambino sordo, si può scegliere di usare la lingua dei segni per far sì che il bambino acquisisca una lingua naturale in maniera spontanea? La comunicazione tra genitori, ed eventualmente con altri fratelli, avverrà comunque in lingua orale, quale sarà la lingua "naturale" per il bambino sordo?
- Attraverso la logopedia, quanto è naturale e quanto è artificiale la stimolazione alla lingua orale? Si possono definire dei confini sulla base degli difficoltà che emergono nelle fasi successive?
- Quale suggerimento dare a dei genitori udenti a cui nasce un bambino sordo che chiedano consigli sulle scelte linguistiche e terapeutiche da fare?
- Si parla spesso di vantaggi sociali e cognitivi del bilinguismo. Da questo punto di vista, il bilinguismo lingua parlata / lingua segnata è diverso dal bilinguismo fra due lingue parlate? E il bilinguismo fra due lingue segnate?
Valutare la competenza verbale dei bambini sordi attraverso la scrittura non è facile (è possibile farlo solo a partire da una certa età, il test richiede tempi di somministrazione più lunghi ecc.). Un modo per ovviare ad alcune difficoltà è concentrare la valutazione solo su semplici giudizi di grammaticalità ("la frase è giusta" vs "la frase è sbagliata", come nel test Conversa: http://nets.iusspavia.it/tests/conversa/) anziché su più profonde valutazioni della comprensione (ad esempio attraverso picture or character matching task, come nel test Comprendo: http://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/carlo-cecchetto-alberto-di-domenico-maria-garraffa/comprendo-9788860305589-1448.html)
- Questa "semplificazione" è utile e sensata?
- Come potenziare le abilità linguistiche in italiano scritto dei segnanti?
- Come superare il gap in maniera sistematica pur garantendo l’uso e l’accesso alla LIS.
Nel periodo tra il ‘700 e l’800 nell’educazione del bambino sordo si è giunti a una situazione confusa quando hanno iniziato a contrapporsi i due metodi, quello francese e quello tedesco, e con loro la scelta di usare una o due lingue. Nell’ultimo caso in particolare, ritengo che alla fine non si sia mai approfondito veramente il ‘come’ e ‘quando’ usare e alternare le due lingue (lingua dei segni e lingua vocale). A volte se ne può usare una sola, a volte solo l’altra e a volte entrambe insieme per una comparazione a scopi didattici e sociali. È chiaro che senza prove di ricerca questo resti una mia semplice opinione, tuttavia il dubbio per me rimane: è possibile che si sia tralasciato qualcosa? Per chi usa in ambiti educativi entrambe le lingue, servirebbe chiarire quando usarle insieme, e quando invece usarne una, perché ritengo che debbano essere usate anche in situazioni distinte. Nel caso del metodo tedesco invece si è trattato proprio di escludere la lingua dei segni, probabilmente per motivazioni politiche, legate a idee patriottiche germaniche portate avanti da molti autori, come Fichte. La contrapposizione tra metodo francese e metodo tedesco, come sappiamo poi è diventata una vera e propria spaccatura nel 1880.
Molto tempo dopo si è riconosciuto e recuperato il valore del bilinguismo e vorrei indicare ora un articolo secondo me molto importante, di autori che hanno una lunga esperienza nel mondo dei sordi, dal titolo “Language acquisition for deaf children: Reducing the harms of zero tolerance to the use of alternative approaches” (Humphries, Kushalnagar, Mathur, Jo Napoli, Padden, Rathmann and Smith, 2012).
Adesso la vecchia contrapposizione si ripropone quando, in caso di impianto, si ritenga di dover escludere l’uso della lingua dei segni. Per il mondo medico in realtà non cambierebbe nulla se, oltre all’impianto, si esponesse il bambino anche alla lingua dei segni, e loro invece portano avanti questa convinzione forse influenzati da altre motivazioni, non precisamente mediche. La scelta dell’impianto non dovrebbe essere considerata inscindibile dalla scelta di escludere la lingua dei segni. Come è descritto bene nell’articolo che vi ho citato prima “There are several types of harm associated with cochlear implantation. We focus first on those that follow from the increasingly common practice of health professionals advising, and sometimes insisting, that the family keep the implanted child away from sign language, an act that leads to the harm of linguistic deprivation. This harm is not the result of cochlear implantation itself, but of actions that lead to linguistic deprivation.”Pertanto la prima domanda che vorrei proporre è la seguente:
- Bambini sordi senza la LIS: un’invisibile deprivazione linguistica?
Dal mio punto di vista essa riassume il punto centrale del problema della contrapposizione ‘oralismo’/bilinguismo. Se si guardasse la mancanza della LIS come deprivazione, sicuramente non ci si porrebbe il dubbio se esporre o no un bambino sordo a questa lingua.
Espongo ora l’altro tema che considero rilevante.
Si sottolinea sempre l’importanza dell’acquisizione linguistica in italiano per bambini e ragazzi sordi ma questa va a frammentarsi in una serie di ruoli diversi che vanno a intervenire nel percorso di acquisizione del bambino. Non è infatti un solo ‘esperto’ a occuparse, e a farlo con le competenze necessarie a supportare l’acquisizione dell’italiano dalla tenera età fino all’età adolescenziale. Ad esempio abbiamo la distinzione tra logopedista e logogenista, uno per il parlato e l’altro per la letto-scrittura, anche se sappiamo che i confini di queste due competenze non sono poi così definiti.
Le loro finalità sono diversificate ma ricapitolando per me ci sono due aspetti cruciali per un’acquisizione guidata.Per i bambini con sordità non si può tralasciare l’importanza del feedback durante le interazioni naturali e semistrutturate, durante le quali avviene un’oscillazione tra input (o immissione) e uptake (o recepimento) linguistico parlato e scritto. Perché non affidare questo compito a quello che chiamerei “portatore di italiano”, convogliare quindi gli sforzi di figure diverse in un titolo specifico orientato all’insegnamento e il contatto continuo con l’italiano per i bambini sordi.
Tutto questo servirebbe anche a liberarsi finalmente dall’errore di separare il parlato e lo scritto, che dovrebbero invece confluire in un unico percorso più ricco. Inoltre servirebbe anche a liberarsi da un altro errore, quello di includere questo tipo di trattamento tra le riabilitazioni: nel mondo della sordità non si tratta di una riabilitazione ma di abilitazione da una condizione prelinguale a quella postlinguale! Così la seconda domanda che propongo è la seguente:
- “Portatore di Italiano” per i bambini sordi: come rendere un efficace input e uptake linguistico?
La povertà dello stimolo viene utilizzato come prova per mostrare, a parità di condizioni, l’inevitabilità dello sviluppo del linguaggio.
Ogni individuo senza patologie particolari se viene esposto ad uno stimolo anche minimo riesce a sviluppare il linguaggio in maniera completa:
- senza sforzo,
- senza istruzione esplicita,
- in un arco di tempo determinato e
- con precisi passaggi evolutivi (lallazione, prima parola, prima frase, ecc.)
Questa situazione si riscontra tipicamente anche nel bambino sordo se esposto precocemente alla lingua dei segni. Tuttavia il quadro sociolinguistico in cui si trova di norma un bambino sordo raramente incontra le condizioni ideali per lo sviluppo del linguaggio.
Lo studio, non più recente, di Singleton & Newport (2004) discute il caso di Simon, un bambino sordo esposto ad una forma “corrotta di ASL” imparata dai genitori udenti che hanno cominciato a imparare l’ASL dopo la scoperta della sordità del loro bambino. Nonostante l’input fosse degradato e contenesse errori, Simon è riuscito a sviluppare le competenze ASL paragonabili a quelle di un segnante nativo.
La questione della povertà dello stimolo viene quindi a giocare un ruolo determinante nello sviluppo del linguaggio nel bambino sordo:
- Cosa conta come stimolo sufficiente (per quanto povero) per un bambino sordo?
- Quanto e come occorre che un bimbo sordo sia esposto alla lingua dei segni per far scatenare il processo di acquisizione naturale del linguaggio?
- Quali strumenti di immediato uso può fornire la ricerca linguistica nel 2020 a due genitori udenti che vengono a sapere che il loro figlio è sordo? Sicuramente sappiamo che le lingue dei segni sono direttamente accessibili al bambino sordo, ma come si potrebbe all’atto pratico proporre una lingua dei segni ad un neonato se i genitori non la conoscono?
- Può essere costruttivo proporre al genitore di utilizzare un sistema di baby signs (ovvero dare al bambino lessico in segni, ma non una grammatica)?
- Può essere vantaggioso l’utilizzo degli schermi (nel senso, la presentazione una lingua dei segni via video)?
- Può avere un senso proporre a neonati attività (attività semplici che possano essere svolte dai genitori) che potenzino capacità cognitive relate al linguaggio, e.g. attività ritmiche con ritmi visivi?
L’IC è al momento l’unico strumento in grado di ripristinare i processi uditivi bilaterali e la loro maturazione nei bambini con ipoacusia neurosensoriale grave/profonda. Tuttavia, si inizia a porre sempre più attenzione a una questione cruciale: l’IC è compatibile con la lingua dei segni? Ovvero: è utile l’insegnamento della lingua dei segni anche a bambini che hanno ricevuto l’impianto in età precoce?
La maggior parte dei clinici pensa che ai bambini impiantati è sufficiente un addestramento logopedico mirato per produrre effetti positivi ed esclude l’insegnamento parallelo della lingua dei segni. Alcuni centri di ricerca, insieme ad associazioni di famiglie più sensibili alla problematica, suggeriscono invece l’associazione/integrazione delle due modalità comunicative: quella uditiva (insieme al trattamento logopedico) e quella visiva (lingua dei segni). Infatti, molte ricerche neurofisiologiche dimostrano che lo sviluppo uditivo (ma anche quello in produzione) post-impianto non si può considerare del tutto comparabile con quello dei bambini normo-udenti.
Gli studi su questa problematica sono davvero scarsi. I pochi dati a disposizione suggeriscono che bambini figli di sordi (quindi parlanti nativi della lingua dei segni) dopo l’impianto hanno performances migliori dei bambini con familiari udenti in percezione, in produzione e nello sviluppo generale delle competenze linguistiche.
Ciò può essere dovuto al vantaggio di essere bilingui? Le modalità uditive e visive si rafforzano a vicenda? Infatti, molti studi hanno dimostrato che i soggetti bilingui hanno vantaggi adattivi e capacità multitasking di gran lunga superiori rispetto ai soggetti monolingui.
"La LIS come ultima spiaggia": spesso gli specialisti propongono alle famiglie con bambini sordi di ricorrere alla LIS solamente laddove metodi riabilitativi basati solo sulla lingua italiana non portano agli esiti sperati. Rispetto a un’esposizione precoce alla LIS, quali potrebbero essere le implicazioni linguistiche, cognitive e sociali di un’esposizione tardiva a questa lingua?
“Accessibilità in LIS per i più piccoli”: in un percorso di bilinguismo bimodale l’input in LIS rischia di essere qualitativamente e quantitativamente scarso e limitato per una serie di circostanze (per es. famiglia non segnante, isolamento geografico, difficoltà economiche, poche opportunità di contatto con altri bambini segnanti, ecc.). Al fine di offrire ai bambini sordi maggiore input in LIS e sostenere il bilinguismo bimodale potrebbero essere d’aiuto le nuove tecnologie, l’organizzazione di attività interattive accessibili e la predisposizione di particolari materiali in LIS?
Ci sono studi che valutano la competenza linguistica (in particolare sintattica) delle persone adolescenti e/o adulte con impianto cocleare? Ci sono diversi studi sui bambini (anche piccoli), ma pochi sulle popolazioni con età più avanzate.
Studi sugli adolescenti/adulti (che possibilmente abbiano ricevuto l’impianto in età molto precoce) potrebbero essere utili per valutare l’efficacia dell’IC nel lungo periodo, per determinare se, nel lungo periodo, queste persone riescono a raggiungere livelli linguistici comparabili o simili agli udenti in una o più componenti linguistiche.
La valutazione linguistica sul lungo periodo può dare indicazioni utili per le proposte riabilitative, ad esempio per l'effettiva necessità (o meno) di applicare due impianti cocleari (nei bambini).
Caratteristiche linguistiche della LIS
Dato che ormai è ampiamente condiviso che le lingue dei segni siano vere e proprie lingue,
- come funzionano sul piano dell’organizzazione strutturale ai vari livelli dell’analisi linguistica e sul piano sociolinguistico?
- esiste in Italia una norma condivisa e una varietà di riferimento?
- in relazione alla linguisticità delle lingue dei segni, come si spiegano fenomeni come le labializzazioni e l’iconicità?
L’analisi linguistica delle lingue dei segni è stata condotta (e continua a esserlo il più delle volte anche oggi) a partire da teorie che provengono dallo studio di altre lingue orali (anzi perlopiù scritte), utilizzando e adattando categorie e strumenti di analisi che erano ben giustificate nella descrizione sistematica di quelle lingue.
De Mauro ci ricorda però che le lingue non dovrebbero essere analizzate piegandole a un sistema di analisi già preconfezionato, semmai è il sistema di descrizione che deve piegarsi alla lingua (De Mauro, 1991).
Ora che la ricerca sulle lingue dei segni è abbastanza matura, crediamo sia giunto il momento di esplorare queste lingue per quello che sono nella loro piena complessità, invece di cercare di adattarle alla cornice delle lingue parlate.La natura peculiare degli articolatori e il mezzo impiegato nelle lingue dei segni svolgono un ruolo importante nel preservare l'iconicità. L'iconicità è una delle principali risorse strutturali delle lingue segnate, che permea ogni livello del sistema linguistico e agisce come un vincolo pragmatico nell'interpretazione dell'enunciazione.
La tendenza alla categorizzazione e alla discontinuità sono piuttosto un prodotto delle esigenze dei ricercatori e provengono da una cultura basata sull'alfabeto che influenza irreversibilmente la nostra idea di ambiente metalinguistico.La descrizione completa delle lingue dei segni richiede piuttosto attenzione a una serie di fattori pragmatici: sguardo, espressione facciale, postura e movimento del corpo, e altri elementi visivi che si presterebbero più ad analisi in termini di gradienti che di categorie discrete.
Quando guardiamo le lingue dei segni con una mente aperta, ci troviamo davanti a una serie di domande fondamentali relative alla natura stessa del linguaggio umano e il loro studio ci offre dunque un'importante opportunità per rivedere alcune delle ipotesi che si riteneva fossero principi di base del linguaggio (Slobin, 2008; Kendon, 2014).Una delle domande che lo studio delle lingue dei segni ci pone è:
- Come possono coesistere fenomeni linguistici altamente iconici con le esigenze formali e strutturali di un sistema linguistico?
E più in generale:
- In che modo le ricerche sulle lingue dei segni possono cambiare la definizione stessa di lingua?
Le nostre domande si muovono nell'ambito del confronto con l'analisi da noi portata avanti per il parlato spontaneo. Vedi Teoria della lingua in atto (L-AcT) e raccolta e analisi di corpora romanzi di parlato con allineamento testo/suono e parametri prosodici, enunciato per enunciato.
Dal nostro punto di vista potrei sintetizzare le questioni fondamentali nel seguente modo:
- Che cos'è un enunciato in LIS e come è segnalato?
- Esiste in LIS una veicolazione degli atti linguistici e come è espressa?
- Esiste in LIS una struttura dell'informazione e come è espressa in produzioni segnate di una certa estensione?
Inoltre, esprimiamo la necessità di condividere le conoscenze relative agli impianti cocleari precoci, conoscenze che dovrebbero essere estesamente e chiaramente illustrate.
LIS come lingua minoritaria
Tenuto conto che non è ancora stata riconosciuta come tale - ma auspicando che lo sia a breve - che ruolo potrebbe avere/ha (sia per le ricadute empiriche sia per gli aspetti teorici) la questione della variabilità diatopica e, soprattutto, la formazione dialettale considerando che la “norma” è in continuo movimento (specialmente quella implicita) e inoltre non è ancora del tutto codificata o, perlomeno, non ha subìto quel lungo processo di standardizzazione che ha attraversato la lingua nazionale? Quali gli elementi positivi e quali le criticità?
- Quanta morfologia è presente nelle lingue dei segni?
- Fino a che punto è comparabile con quella espressa nelle lingue vocali?
La mia domanda riguarda le componenti orali e in particolar modo quelle che derivano dal contatto con la lingua vocale, ovvero le labializzazioni o mouthings, che dir si voglia. Nei corsi di lingua dei segni, spesso ai livelli più bassi, queste componenti vengono trascurate o peggio inibite con la motivazione che potrebbero indurre gli apprendenti a decifrare il messaggio distogliendo però l’attenzione dalla componente manuale e corporea. Diverse ricerche nazionali e internazionali hanno però dimostrato che queste componenti non possono essere trascurate nel sistema LIS perché, al pari di altri parametri, contribuiscono alla costruzione del significato.
- Come conciliare nella didattica della LIS la presenza di questo fenomeno di contatto e l’efficacia del corso, è corretto affrontarlo solo a un livello medio-alto di conoscenza della lingua o introdurlo fin da subito?
Nell’uso parlato spontaneo vi è una grande variazione nella determinazione dei segni. Possiamo andare dalla iperspecificazione, che corrisponde alla massima ridondanza dei tratti distintivi di un segno alla ipospecificazione, che corrisponde alla minima ridondanza dei tratti distintivi di un segno.
Se si guardano i dati (es., Voghera, Dal parlato alla grammatica, Carocci, 2017), nel parlato spontaneo le forme cosiddette ipospecificate sono maggioritarie a tutti i livelli di codificazione. Sembra proprio quindi che l’ipospecificazione non sia una scelta cui si ricorre in casi estremi o in particolari condizioni comunicative, ma sia la condizione segnica più diffusa: la condizione funzionale normale di efficienza d’uso del codice in condizioni naturali e spontanee. Ai fini della comunicazione è più economico che i parlanti stimino di volta in volta quale può essere il peso delle diverse variabili in gioco e attraverso un calcolo delle probabilità codifichino/decodifichino i messaggi verbali piuttosto che usare i segni al massimo grado di ridondanza, o affidarsi a segni totalmente preconfezionati.
- Anche nella lingua dei segni si possono osservare fenomeni attribuibili a diversi gradi di determinazione/specificazione della realizzazione dei tratti pertinenti dei segni e, eventualmente, se esistono delle preferenze per l’ipo-specificazione?
Le lingue orali sono presumibilmente sequenziali non tanto perché lo sia il pensiero ma per le limitazioni del canale attraverso cui passa il linguaggio (la bocca, in primis), anche se a livello fonetico ci sono vari tratti distintivi che sono trasmessi in parallelo (tratti articolatori, toni, intonazione).
Nelle lingue dei segni questo vincolo non c'è, nel senso che si può immaginare casi in cui più significati vengono trasmessi in parallelo (ad esempio, con la mano destra e sinistra; con la faccia e con le mani).
- In che misura questo avviene davvero? Le lingue dei segni sono più "parallele" di quelle orali, e se sì, in quale misura?
Diritti linguistici e politiche linguistiche
Considerato che la Costituzione sancisce pari dignità sociale ed eguaglianza fra tutti i cittadini e che il Parlamento italiano ha ratificato nel 2009 la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità,
- come si pensa di promuovere una politica linguistica in vista del riconoscimento della LIS?
- occorrerebbe tutelare la LIS ma allo stesso tempo il bilinguismo e quindi promuovere percorsi educativi curriculari che consentano l’accesso a entrambe le due lingue, prevedendo insegnanti specializzati nelle due lingue?
- come si promuove la LIS nell’ambito dei servizi ai cittadini?
Mi pare che una cosa che si può chiedere è il rapporto fra LIS e pubblica amministrazione, nella pratica. Ossia: le ‘altre’ lingue di minoranza devono provvedere sportelli e , entro certi limiti, qualche abbozza di amministrazione bilingue. Come fare nel caso della LIS? Si formano amministratori pubblici segnanti? (e evidentemente bilingui). Come fare per i moduli stampati? Evidentemente saranno scritti in un’altra lingua, l’italiano, il che esclude il bilinguismo amministrativo.
Un punto centrale mi sembra quello dell'equilibrio tra la tutela dei diritti linguistici della comunità sorda da una parte, e il potenziamento dell'accesso alla lingua orale delle singole persone sorde dall'altra. In altre parole: i diritti linguistici dei sordi come membri della comunità sorda e come membri della comunità nazionale. Sono due direttrici potenzialmente in tensione tra di loro, ma, a mio avviso, non dovrebbero essere messe in reciproco contrasto. Quali sono, in questo senso, le strategie individuate? Quali le priorità?
Dal punto di vista legislativo esiste la possibilità che in futuro la lingua dei segni possa diventare una lingua da insegnare all'interno delle scuole?
Il riconoscimento della Lis. Una lingua di minoranza?
In generale, l’orientamento giuridico dei provvedimenti che puntano a un riconoscimento della Lis – in particolare quello consolidatosi nel disegno di legge approvato dal Senato il 3 ottobre 2017 e recante il titolo “Legge quadro sui diritti di cittadinanza delle persone sorde, con disabilità uditiva in genere e sordocieche”, che ha unificato una serie di precedenti disegni di legge presentati tra il marzo 2013 e l’aprile 2015 – insiste in modo prioritario sul riconoscimento della disabilità quale causa delle barriere comunicative da rimuovere. Si tratta, cioè, di garantire diritto di cittadinanza (e, dunque, anche il diritto alla comunicazione) a persone “sorde, con disabilità uditiva in genere e sordocieche” senza che venga fatto alcun riferimento alla Lis quale parte integrante del patrimonio linguistico e culturale del Paese, e dunque bene da valorizzare (o tutelare).
Nel Disegno di legge il richiamo diretto al testo della Costituzione riguarda infatti l’art. 2 (rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo) e l’art. 3 (pari dignità sociale ed eguaglianza fra i cittadini senza distinzione di lingua), mentre non si cita l’art. 6 della Carta (La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche) che è invece direttamente richiamato dalla famosa (e ormai superata) Legge 15 dicembre 1999 n. 482 sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche.
A dire il vero nella documentata introduzione alla proposta di legge n. 2239/2014 presentata il 27 marzo 2014 alla Camera dei Deputati – chiaramente esito di un confronto con esperti linguisti e di lingue dei segni, che ne hanno verosimilmente redatto il testo – le ragioni della legittimità socioculturale della Lis (accanto a quelle connesse alle necessità comunicative indotte dalla disabilità) sono richiamate proprio facendo riferimento alla ricerca sistematica su questo tema in Italia, condotta da Virginia Volterra a partire dagli anni Ottanta.
Tuttavia a questa dichiarazione di principio non fa seguito nessun riferimento specifico a tale fattore linguistico-culturale negli articoli della proposta di legge.
Alla luce di una minore rilevanza del requisito di territorialità coesa quale elemento essenziale per la definizione di gruppo linguistico di minoranza appare più che legittimo chiedersi se sia utile, e ragionevole, giustificare con la sola ragione della disabilità la promozione di una lingua (la Lis, appunto) che viene considerata un diritto solo in quanto (teoricamente, o almeno parzialmente) priva di alternative per la comunità che vi fa ricorso.
Ciò finisce per legittimare una serie di problematiche affermazioni, che indeboliscono l’intera impalcatura generale di tutela dei diritti connessi alla diversità linguistica.
Si potrebbe sostenere, infatti, che:
- se una varietà linguistica di minoranza può essere affiancata o sostituita, nella competenza del soggetto comunicatore, da quella ufficiale di uno Stato viene meno la ragione di una “valorizzazione” ad hoc per tale varietà minoritaria in assenza di un ruolo storico significativo esercitato da quest’ultima nella vita sociale del Paese (per inciso, questo giustifica il “limbo” in cui sono rimaste le lingue di immigrazione, le nuove minoranze, le lingue immigrate…);
- in un’ottica più ampia, esisterebbe allora un bilinguismo positivo (nel caso in cui la competenza comunicativa dei soggetti o delle comunità concerne due o più varietà linguistiche dotate di prestigio a livello internazionale) e un bilinguismo residuale o tollerato, pur se a volte anche valorizzato (come per le minoranze storiche difese dalla L. 482), ma mai realmente promosso. Nell’indebito perdurare di tale situazione, come potrebbe mai configurarsi in senso positivo il bilinguismo italiano-Lis?;
- nonostante tutte le formulazioni giuridiche menzionino la libertà di scelta e la non discriminazione come principi ispiratori vincolanti per singoli e gruppi, se fosse solo il deficit sensoriale dei sordi a giustificare il riconoscimento della LIS si avrebbe buon gioco a sostenere sempre e comunque ogni percorso alternativo per “riguadagnare” alla comunicazione vocale i segnanti (protesi, impianti cocleari, metodo oralista ecc.).
Per tali ragioni, a mio avviso, il processo di riconoscimento dovrebbe considerare come intrinsecamente inseparabili i fattori connessi alla disabilità sensoriale e quelli relativi alla tutela dovuta alle minoranze (linguistiche, culturali) e alla salvaguardia dei loro diritti di cittadinanza, tra cui quello alla comprensione e comunicazione.
La domanda è allora duplice.
Anzitutto: come riuscire in questa azione di politica linguistica, mantenendo un equilibrio fra le due istanze senza compromettere l’efficacia del provvedimento legislativo? Come evitare che la volontà esplicita di integrazione riconosca senza ambiguità l’atteggiamento di affirmative action che ormai da quasi mezzo secolo caratterizza la comunità sorda matura anche in Italia, ma senza “rovesciarsi” per questo in una pratica di reverse discrimination?
E infine: è verosimile che la resistenza del nostro Paese a varare una specifica legislazione di riconoscimento della minoranza sorda sia motivata dalla consapevolezza delle conseguenze inevitabili (ma doverose, a mio avviso) che ciò comporterebbe per l’intera politica linguistica sul territorio – ripensando tutte le azioni a tutela della diversità e promuovendo iniziative concrete anche nei confronti delle lingue di immigrazione?
Sul piano dei diritti linguistici e epistemici, si è fatto molto perché le persone sorde abbiano accesso all'informazione. Mi chiedo cosa si possa fare ora per includerle nel dibattito pubblico, per fare in mondo che sia garantita loro una partecipazione associativa e anche politica e istituzionale attiva che comprenda ma non sia limitata alla discussione sulla sordità. In altre parole, come possiamo rimuovere gli ostacoli che limitano l'effettiva partecipazione delle persone sorde alla vita politica del paese.
Domande ritenute rilevanti per altri gruppi
E' stato dimostrato che i sordi, apparentemente senza linguaggio, sviluppano, in ogni caso, un home signing, che però non è condiviso. L'assenza di una lingua condivisa socialmente quanto influisce nella cognizione?
Domanda che attiene all'ambito linguistico ma che abbraccia aspetti sociali e antropologici spero stimolanti.
Il riferimento è a quei bambini sordi segnanti, figli di sordi o diventati sordi in tenera età, per i quali la lingua dei segni è talvolta strumento importante di comunicazione e di costruzione del cognitivo; ora mi chiedo con quale rispetto della diversità otologica di questi bambini, con quale attenzione al loro modo di stare nel mondo con competenze visive e spaziali si proceda all'insegnamento della lettura e della scrittura, cioè della forma grafica di una lingua acustica e lineare come l'Italiano. Comprendo che la questione abbracci aspetti quali l'integrazione o l'inclusione, il rispetto o l'omologazione, le competenze pregresse e quelle informali, il valore della lingua nazionale, la prescrittività o la casualità dell'evoluzione linguistica, ecc...
La domanda coinvolge insegnanti, operatori scolastici, educatori, logopedisti, linguisti.
Intervento post-valutazione - meno discussa è forse "la fase due" della valutazione: come si pensa di "intervenire" una volta appurata la sussistenza di un ritardo in una specifica area morfosintattica? Quante volte (e come) si cercano le evidenze che un certo "intervento" sia effettivamente efficace?
Ad esempio per valutare l'efficacia di un farmaco si usa la tecnica del double-blind: allo stesso modo, quanti interventi linguistici/logopedici vengono valutati individuando due popolazioni distinte sottoposte a due "trattamenti" differenti (idealmente, un intervento logopedico "da valutare" e "un placebo")?
Questo approccio del double-blind sarebbe eticamente sostenibile nel contesto della sordità?
Espongo ora l’altro tema che considero rilevante.
Si sottolinea sempre l’importanza dell’acquisizione linguistica in italiano per bambini e ragazzi sordi ma questa va a frammentarsi in una serie di ruoli diversi che vanno a intervenire nel percorso di acquisizione del bambino. Non è infatti un solo ‘esperto’ a occuparse, e a farlo con le competenze necessarie a supportare l’acquisizione dell’italiano dalla tenera età fino all’età adolescenziale. Ad esempio abbiamo la distinzione tra logopedista e logogenista, uno per il parlato e l’altro per la letto-scrittura, anche se sappiamo che i confini di queste due competenze non sono poi così definiti.
Le loro finalità sono diversificate ma ricapitolando per me ci sono due aspetti cruciali per un’acquisizione guidata.
Per i bambini con sordità non si può tralasciare l’importanza del feedback durante le interazioni naturali e semistrutturate, durante le quali avviene un’oscillazione tra input (o immissione) e uptake (o recepimento) linguistico parlato e scritto. Perché non affidare questo compito a quello che chiamerei “portatore di italiano”, convogliare quindi gli sforzi di figure diverse in un titolo specifico orientato all’insegnamento e il contatto continuo con l’italiano per i bambini sordi.
Tutto questo servirebbe anche a liberarsi finalmente dall’errore di separare il parlato e lo scritto, che dovrebbero invece confluire in un unico percorso più ricco. Inoltre servirebbe anche a liberarsi da un altro errore, quello di includere questo tipo di trattamento tra le riabilitazioni: nel mondo della sordità non si tratta di una riabilitazione ma di abilitazione da una condizione prelinguale a quella postlinguale!
Così la seconda domanda che propongo è la seguente:
“Portatore di Italiano” per i bambini sordi: come rendere un efficace input e uptake linguistico?